Erik Thomsen gold hiramaki-e, kinpun and nashiji ci parlavano in danese rispondevamo in giapponese

Bergdorf Goodman, il Plaza Hotel, l’Apple Store e Barney’s – oggi caduto in disgrazia – si trovano tutti nel raggio di pochi isolati. Siamo a New York. Tra Central Park South e l’Upper East Side c’è un edificio neoclassico che in uno dei suoi duplex ospita la Thomsen Gallery. In netto contrasto con le vetrate e i pavimenti in parquet dell’edificio che la accoglie, la collezione Thomsen si compone di opere d’arte e manufatti giapponesi risalenti al periodo tra il Ventesimo e il Ventunesimo secolo. In una gelida mattinata di inizio settimana, incontro il suo co-proprietario Erik Thomsen. La sua passione per la cultura nipponica non è una velleità passeggera, né l’ossessione di un turista inconsapevole. Nato a Chicago da genitori danesi – il padre era allora un missionario luterano – Erik si trasferì in Giappone con la sua famiglia quando aveva soltanto tre mesi. Vi rimasero per dieci anni,
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